Il Gladiatore 2: licenza poetica o inesattezza storica?

La locandina del film Il Gladiatore 2 del registra britannico Ridley Scott

Il Gladiatore 2: quanti di voi hanno visto il film con la regia Ridley Scott, sequel de Il Gladiatore, da poco uscito nelle sale cinematografiche? Cosa ne pensate?

Io non amo molto questo genere di film americani, ma ho voluto vederlo soprattutto per motivi legati alla mia professione di guida turistica di Roma.

Premessa: non è ovviamente un film “storico” e non vuole assolutamente esserlo, né tantomeno un documentario.

E quindi, non essendo tale, si possono “perdonare” le molte inesattezze e libertà storiche presenti nel film?

Solo per citarne sinteticamente qualcuna:

√ Macrino (nel film interpretato dall’attore statunitense Denzel Washington) in realtà fu un imperatore romano anche se solo per 14 mesi, e non è mai stato né uno schiavo né un gladiatore;

Il personaggio di Macrino interpretato dall’attore statunitense Denzel Washington nel Il Gladiatore 2

√ gli imperatori Geta e Caracalla (interpretati nel Gladiatore 2 dall’attore britannico Joseph Quinn – Geta – e dall’attore statunitense Fred Hechinger – Caracalla): su di loro sono molte le inesattezze e ne cito solo qualcuna: erano sì fratelli, ma non gemelli e Caracalla non fu ucciso poco dopo Geta;

Gli imperatori Geta e Caracalla interpretati ne Il Gladiatore 2 rispettivamente dall’attore britannico Joseph Quinn (Geta) e dall’attore statunitense Fred Hechinger (Caracalla)

√ Lucilla (interpretata dall’attrice danese Connie Nielsen) fu effettivamente una figlia dell’imperatore Marco Aurelio ma i fatti della sua vita non sono contemporanei all’impero dei fratelli Caracalla e Geta, come viene narrato nel film.

Lucilla interpretata ne Il Gladiatore 2 dall’attrice danese Connie Nielsen

Storicamente fu esiliata a Capri dall’imperatore Commodo che la fece uccidere l’anno dopo e non morì per mano di Macrino nell’arena del Colosseo, come si vede nel film.

L’uccisione di Lucilla nell’arena del Colosseo ne Il Gladiatore 2

Fin dove dunque ci si può spingere, manipolare e alterare la realtà storica? Sarebbe meglio quindi definirlo un film “fantasy” o un film di pura finzione: si potrebbero in questo caso perdonare i clamorosi errori storici?

Si sa che nei film di Ridley Scott l’esattezza e l’accuratezza storica non interessa. Basti pensare alle inesattezze presenti anche nel Gladiatore 1 e in Napoleon. Anche nel Gladiatore 2 Scott si ispira alla storia romana ma liberamente modificando eventi ed epoche.

La locandina del film Il Gladiatore interpretato dall’attore neozelandese Russel Crowe

Tralasciando quindi le molte “licenze poetiche” del film, a partire dall’invenzione dei personaggi di Massimo Decimo Meridio del Gladiatore 1 uscito nel 2000 e interpretato dall’attore neozelandese Russel Crowe, e di suo figlio Annone alias Lucio Vero Aurelio del Gladiatore 2, uscito nella sale italiane a fine novembre 2024 e interpretato da Paul Mescal, ci sono però molti errori che, a mio parere, vanno decisamente un po’ oltre la libertà cinematografica…

Il protagonista del Gladiatore 2, l’attore irlandese Paul Mescal che interpreta Annone alias Lucio Vero Aurelio

⚠️🔝⚠️ La prima, quella più eclatante di tutte, è la scritta in inglese incisa sulla tomba del gladiatore Massimo Decio Meridio: “What we do in life, echoes in eternity” (Quello che facciamo in vita, riecheggia nell’eternità) parole pronunciate, appunto, da Massimo Decimo Meridio alias Russel Crowe nel film Il Gladiatore.

La scritta in inglese incisa sulla tomba del gladiatore Massimo Decio Meridio in una scena del film

D’accordo che il latino non è una lingua ormai conosciuta dai più, ma bastava forse mettere i sottotitoli con la traduzione… no?

Un altro riguarda la naumachia. Erano battaglie navali (dal greco antico “combattimenti navali”), estremamente dispendiose, che furono probabilmente organizzate al Colosseo, ma solo al tempo di Vespasiano, nei primissimi anni dopo la sua costruzione. Alcune fonti antiche ci attestano infatti che l’area centrale del Colosseo veniva allagata per le battaglie navali.

Scena di naumachia all’interno del Colosseo nel film Il Gladiatore 2

Per svuotarla, l’acqua veniva poi fatta defluire in condotti che portavano alla cloaca e il piano ricoperto con travi di legno dove si svolgevano gli altri spettacoli.

Scena di naumachia all’interno del Colosseo nel film Il Gladiatore 2

L’imperatore Domiziano, figlio di Vespasiano, fece realizzare degli impianti stabili in muratura al di sotto dell’arena, funzionali agli spettacoli, rendendo così impossibile, già da allora, le naumachie all’interno del Colosseo.

Scena di naumachia all’interno del Colosseo nel film Il Gladiatore 2

Inoltre gli squali che si vedono nel film durante la battaglia della Naumachia, a differenza di molti altri animali, non ci sono mai stati al Colosseo.

Scena di naumachia all’interno del Colosseo nel film Il Gladiatore 2 con gli squali
Scena di naumachia all’interno del Colosseo nel film Il Gladiatore 2 con gli squali che assalgono un uomo caduto in acqua nello scontro della battaglia navale

Altro errore che salta subito all’occhio, è quello della scultura della lupa con i gemelli, emblema della città di Roma, che nel film si erge al di sopra di una porta della città.

La scultura della Lupa, emblema di Roma, su una delle porte della città, nella ricostruzione del film Il Gladiatore 2

Tralasciando la questione se sia una scultura di epoca etrusca – risalente al V secolo a.C. o di epoca medievale, realizzata nel XIII secolo – si sa però con certezza che le statue dei due gemelli Romolo e Remo furono aggiunti solo nel tardo XV secolo, probabilmente dallo scultore Antonio del Pollaiolo.

Questi, a mio avviso, sono gli errori storici più eclatanti. Molti altri si potrebbero ancora citare, come il posto riservato alle donne nel Colosseo.

Si sa che i posti nell’Anfiteatro Flavio (ricordiamo che fu solo dall’Alto Medioevo che il nome originario di Amphitheatrum o Amphitheatrum magnum fu sostituito da Colysaeum per la contiguità con la statua del Colosso di Nerone), rispettava rigidamente le classi sociali e le donne dovevano sedere, per evitare promiscuità, nel portico colonnato che coronava la cavea, una sorta di loggiato di legno. Le uniche donne che vedevano i giochi da vicino erano le Vestali e l’imperatrice.

Molto si è detto anche sul famoso gesto del pollice in basso, che indicherebbe la morte, o in alto, la grazia.

Il famoso e controverso gesto del pollice, qui interpretato dall’imperatore Geta (Joseph Quinn) nel film Il Gladiatore 2

In questo le fonti sono scarse e discordanti. Un passo delle Satire di Giovenale sembra confermarlo, ma non ci sono indizi storici che lo provino chiaramente, anzi altre fonti affermano esattamente il contrario: il pollice alto (o verso il proprio petto) simboleggiava la lama che entra nel corpo dell’avversario mentre col pollice verso il basso (o i fazzoletti sventolati) invitava il vincitore a deporre a terra la spada pretendendo quindi la grazia del vinto.

E ancora, ci si potrebbe dilungare sulla scena del rinoceronte nell’arena del Colosseo: si sa con certezza che anche questi animali furono, purtroppo, portati a Roma, ma è invece molto improbabile che siano mai stati “cavalcati” da un gladiatore, come si vede nel film.

La scena nel film Il Gladiatore 2 di un rinoceronte nell’arena del Colosseo “cavalcato” da un gladiatore

O ancora, la scena del combattimento dei babbuini, che sì, ci furono nel Colosseo, ma nel film sembrano una via di mezzo tra lupi mannari e dobermann…

Scena di combattimento di babbuini nell’arena del Colosseo nel film Il Gladiatore 2

E dunque, è giusto manipolare e travisare la veridicità storica fino a questo punto? Fin dove si può spingere la libertà cinematografica che si ispira a fatti storici? Esiste un “giusto” compromesso tra verità storica e finzione cinematografica?

A mio parere, sì, esiste un ottimo compromesso quando i film non trasmettono informazione sbagliate, per non creare disinformazione e presentano un contesto storico accurato e non alterato, e si avvalgono anche di una trama che mischia personaggi reali a quelli fittizi, per poter arrivare ad un pubblico più vasto senza annoiarlo, ponendo l’attenzione verso i personaggi e quello che gli accade.

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L’ARTE RACCONTA…

“L’arte racconta”… una frase che abbiamo sentito spesso e che racchiude una profonda verità. E sì, perché l’arte non solo ci racconta la storia dell’artista che ha realizzato l’opera, la sua committenza, il soggetto rappresentato, la tecnica utilizzata… Ma spesso l’arte ci racconta più di quanto possiamo immaginare.

Copia da Joseph Heintz il Vecchio, “Diana e Atteone”, 1600 circa, olio su rame
Roma, Palazzo Barberini. Crediti fotografici: Gallerie Nazionali di Arte Antica 

Come in questo quadro, Diana e Atteone del 1600 circa, un olio su rame conservato a Roma, alla Galleria Nazionale di Arte Antica nella collezione a Palazzo Barberini. Si tratta in realtà di una copia, tratta da un quadro similare realizzato dal pittore Joseph Heintz il Vecchio. L’originale del dipinto, che si distingue dalla copia conservata a Roma per alcuni particolari, è anch’esso un olio su rame datato al 1590-1600 circa, ed è conservato a Vienna, al Kunsthistorisches Museum.

Joseph Heintz il Vecchio, olio su rame, 1590-1600 circa (Vienna, Kunsthistorisches Museum). Immagine di pubblico dominio condivisa via Wikipedia

Joseph Heintz il Vecchio, così chiamato per distinguerlo da suo figlio Joseph Heintz il Giovane, nasce a Basilea nel 1564. Dopo aver effettuato i suoi primi studi nella bottega di Hans Bock il Vecchio, soggiorna varie volte in Italia: Roma, Firenze e in particolare Venezia, dal 1587 al 1588. Nel 1591 Rodolfo II d’Asburgo lo volle a Praga, dove in quegli anni lavoreranno molti altri grandi pittori del Manierismo internazionale. Rodolfo, divenuto imperatore del Sacro Romano Impero nel 1575, aveva trasferito nel 1583 la sede della corte imperiale da Vienna a Praga. Heintz divenne così il ritrattista ufficiale di corte ed anche il quadro Diana e Atteone fu commissionato dall’imperatore. Il pittore ritornò varie volte in Italia e morì a Praga nel 1608.

Il tema raffigurato nel dipinto è tratto dal terzo libro delle Metamorfosi di Ovidio.

Atteone era un giovane amante della caccia. Durante una battuta si imbatte casualmente in una grotta con una fonte dove la dea Diana/Artemide, affaticata dalla caccia, era solita bagnarsi insieme alle sue ninfe. Esse, appena si accorgono della sua presenza, cercano di coprire la nudità di Diana nascondendola con i loro corpi. Ma la dea, distinguibile dalla falce lunare sulla testa, adirata per l’oltraggio prese dell’acqua e bagnò il volto di Atteone aggiungendo parole che predicevano la futura sventura: “Ora racconta pure d’avermi vista senz’abito, se riuscirai”. Dalla testa del giovane iniziano a spuntare delle corna e tutto il suo corpo ben presto si tramuta in un cervo. Atteone impaurito scappa, ma viene inseguito dai suoi stessi cani che, non riconoscendolo, lo circondano e lo sbranano.

La fortuna del soggetto di questo quadro di Heintz lo si intuisce dalle numerose copie, oltre questa di Palazzo Barberini, realizzate sia stampa che a olio, tra cui quella conservata a Venezia alle Galleria dell’Accademia. Inizialmente considerata autografa, si pensa possa essere una copia del quadro con la medesima composizione conservato a Vienna.

Copia da Joseph Heintz Il Vecchio, “Diana e Atteone”, post 1590 – ante 1600, olio su tela (Venezia, Gallerie dell’Accademia) Fonte foto: https://catalogo.beniculturali.it/

Ma torniamo alla descrizione del dipinto di Palazzo Barberini. Il momento scelto dal pittore è quello poco prima dell’epilogo tragico della storia: vediamo Atteone circondato dai suoi cani, che ha appena violato lo spazio sacro. Diana, attorniata dalle sue ninfe, sta prendendo l’acqua per spruzzarla sul viso del cacciatore. E la metamorfosi sta già iniziando: dalla testa del giovane spuntano infatti delle corna di cervo.

Il nostro sguardo è però attirato dall’atteggiamento di alcune di queste ninfe. Una di loro, in primo piano, si nasconde parte del volto con la mano, ma ci guarda con un occhio rischiando così di assimilarci ad Atteone. E per colpa di uno sguardo, anche noi potremmo avere la stessa punizione ed essere trasformati in cervo!

C’è poi anche un’altra ninfa che cattura il nostro sguardo. Incurante del pericolo, continua a pettinarsi i suoi lunghi capelli al sole.

Particolare di una ninfa da “Diana e Atteone”, Roma, Palazzo Barberini

Osservandola meglio vediamo che la giovane donna indossa un cappello. Non si tratta però di un semplice cappello ma di un indumento specifico chiamato “solana”. Era un cappello di paglia finissima ma senza calotta, con larghe tese per proteggere le spalle e il viso dal sole, fatto appositamente per far sì che si potessero stendere sopra i capelli, appena lavati e ancora bagnati, per esporli ai raggi solari. In questo modo i capelli si schiarivano e si otteneva un tipico colore , allora molto apprezzato e ricercato, il “Biondo Veneziano”. Era una nuance di colore alla moda in quegli anni, soprattutto nella Repubblica di Venezia tra la fine del XV e la prima metà del XVII secolo. Si tratta di un castano molto chiaro tendente al biondo, con intense sfumature rossicce che richiama le spighe di grano mature.

Da Giovanni Grevembroch, “Gli abiti dei veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel secolo XVIII”, Venezia, Libreria Editrice Filippi, 1981

Questo processo di schiaritura era facilitato anche dall’uso di varie sostanze, per lo più vendute da erboristi, aromatari, “muschiari” veneti, così chiamati perché abili soprattutto nella preparazione di prodotti a base di muschio e ambra e “lissadori” che creavano misture per “lisciare” la pelle, cioè creme anti-età e tinture per capelli. Molte di queste ricette per schiarire i capelli, a base dei più svariati prodotti, quali bucce di melagrana, sterco di asina, mallo di noci e altro, erano realizzate anche in casa. Queste tinture venivano stese aiutandosi con la “sponzeta”, un bastoncino con una piccola spugna legata in cima che veniva passata più volte sui capelli dopo averla intrisa in una fiaschetta che conteneva il liquido schiarente.

Pietro Bertelli nel suo “Diversarum Nationum Habitus” edito nel 1589, in una delle tavole che ritraggono una serie di costumi del tempo ci mostra una dama veneziana alle prese con questo “rituale” di schiaritura dei capelli. E sì, perché per ottenere questa particolare colorazione, si trattava di un rituale vero e proprio.

Particolare da Pietro Bertelli, “Diversarum Nationum Habitus”, 1589

Per far sì che apparissero i preziosi riflessi dorati era però necessario esporsi al sole. Per questo le donne salivano sulle “altane”, uno degli elementi più caratteristici dell’architettura minore veneziana, una sorta di terrazza sopra i tetti delle case che nel Quattrocento, come si vede in alcuni dipinti di Carpaccio, era in legno con balaustra.

Particolare di un’altana da Vittore Carpaccio, “Il Miracolo della Croce a Rialto” (o “Guarigione dell’ossesso”), tempera su tela, 1494 (Venezia, Galleria dell’Accademia – Immagine di pubblico dominio condivisa via Wikipedia

Qui si dedicavano alla cosmetica trascorrendo molte ore esposte al sole per schiarire i capelli. E per ripararsi dal caldo indossavano anche una lunga veste bianca di seta o di un tessuto leggero chiamata “schiavonetta“.

Particolare da Agnolo Bronzino, “Ritratto di Lucrezia Panciatichi”, olio su tavola, 1541 circa (Firenze, Uffizi) – Immagine di pubblico dominio condivisa via Wikipedia

E numerosissime sono le donne ritratte nei dipinti dei grandi pittori del ‘500, come Agnolo Bronzino e soprattutto i veneziani Carpaccio, Tiziano e Tintoretto, con i capelli dal tipico color “biondo veneziano”.

Vittore Carpaccio, “Due dame veneziane”, olio su tavola, 1490-1495 circa (Venezia, Museo Correr) – Immagine di pubblico dominio condivisa via Wikipedia
Tiziano Vecellio, “Flora”, olio su tela, 1515 circa (Firenze, Uffizi) – Immagine di pubblico dominio condivisa via Wikipedia
Tiziano Vecellio, “Donna allo specchio”, olio su tela, 1512 – 1515 circa (Parigi, Louvre) – Immagine di pubblico dominio condivisa via Wikipedia
Jacopo Robusti Tintoretto, Ritratto di donna in rosso, olio su tela, 1555 circa, (Vienna, Kunsthistorisches Museum) – Fonte foto: https://www.artribune.com/arti-visive/archeologia-arte-antica/2018/08/tintoretto-mostra-venezia
Particolare da Jacopo Robusti detto Tintoretto, “Susanna e i vecchioni”, 1555 circa, Olio su tela (Vienna, Kunsthistorisches Museum) – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia
Jacopo Tintoretto, “Estate”, olio su tela, 1555 circa (Washington D.C., National Gallery of Art) – Fonte foto: https://www.artribune.com/arti-visive/archeologia-arte-antica/2018/08/tintoretto-mostra-venezia

  • Per approfondimenti su questo argomento: Konrad Bloch, Blondes in Venetian Paintings, the Nine-Banded Armadillo, and Other Essays , Yale University Press, 1995

Vedremo insieme questa bellissima opera di Joseph Heintz il Vecchio insieme a molte altre conservata a Palazzo Barberini, Galleria Nazionale di Arte Antica, SABATO 12 FEBBRAIO alle ore 11.

Per partecipare alla visita guidata è obbligatoria la prenotazione inviando una mail a prenotazioni@vogliadiarte.com indicando NOME, COGNOME e CELLULARE di ogni partecipante.

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GLI AMANTI DI TERUEL: STORIA DI UN AMORE PROIBITO

Le due statue realizzate dallo scultore Juan de Ávalos, nel 1955
(Fonte foto: https://it.wikipedia.org/wiki/Amanti_di_Teruel)

Siete mai stati innamorati?

Questa è la storia d’amore tra due giovani, Juan Diego Martínez de Marcilla e Isabel de Segura, vissuti nei primi anni del XIII.

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RENNES-LE-CHÂTEAU: LA COSTRUZIONE DEL MITO 9. L’interno della chiesa di Rennes-le-Château: il pulpito, l’altare, le vetrate e le “pommes bleues”

Il 14 ottobre del 1891 riprendono i lavori nella chiesa di Rennes-le-Château e una settimana dopo, il 20 ottobre, il parroco Saunière acquista dalla Manifattura Giscard di Toulouse il nuovo pulpito e un bassorilievo triangolare da installare sopra l’ingresso della chiesa.

Il nuovo pulpito acquistato dal parroco Saunière alla Manifattura Giscard di Toulouse (Foto dell’autore)
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RENNES-LE-CHÂTEAU: LA COSTRUZIONE DEL MITO 8. L’esterno della chiesa di Rennes-le-Château e l’iscrizione “Terribilis est locus iste”

Dal 4 al 20 dicembre 1891 Saunière, parroco di Rennes-le-Château, si dedica all’installazione del bassorilievo sopra la porta di ingresso della chiesa del paese, sormontato da un tetto color giallo canarino; sulla chiave di volta oggi si trova il simbolo del Sacro Cuore, ma all’epoca di Saunière compariva una conchiglia.

Il bassorilievo sopra la porta di ingresso della chiesa di Rennes-le-Château (Foto dell’autore)
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RENNES-LE-CHÂTEAU: LA COSTRUZIONE DEL MITO 7. L’anomala simbologia della chiesa di Rennes-le-Château

La chiesa di Rennes-le-Château dedicata a Maria Maddalena è posta nella parte alta del paese.

Il bellissimo panorama da Rennes-le-Château, ubicato sulla cima di una collina affacciata sui Pirenei (Foto dell’autore)
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RENNES-LE-CHÂTEAU: LA COSTRUZIONE DEL MITO 6. I ritrovamenti di Saunière: la tomba della marchesa Marie de Nègre d’Ablès, ultima signora di Rennes-le-Château

Il parroco Berénger Saunière aveva iniziato nel 1891 anche una serie di lavori di pulizia nel cimitero attiguo alla chiesa di Rennes-le-Château. Queste attività furono probabilmente un normale lavoro di sistemazione dell’antico camposanto, che versava da molti anni in uno stato indecente. Sappiamo che all’epoca il cimitero si trovava in uno stato di crescente abbandono: un documento del 1876 attestava la presenza di molte ossa sparse su tutto il terreno, a vista. E Saunière si diede da fare  per rendere il cimitero un luogo di sepoltura degno.

Il piccolo cimitero attiguo alla chiesa di Rennes-le-Château.
Fonte foto: “Guida storica – I lavori nel cimitero (1895)”, di Mariano Tomatis, in http://www.renneslechateau.it.
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RENNES-LE-CHÂTEAU: LA COSTRUZIONE DEL MITO 5. I ritrovamenti di Saunière all’interno della chiesa: la scoperta di una tomba

Saunière continua con i lavori di restauro all’interno della chiesa di Maria Maddalena a Rennes-le-Château. Dalle precise annotazioni lasciate dal parroco nel suo diario, sappiamo che il 21 settembre 1891, mentre proseguivano i lavori, scopre un sepolcro importante nella chiesa (découverte d’un tombeau), probabilmente grazie ad una serie di scavi. Il 21 settembre, giorno della scoperta, i muratori erano in procinto di installare il nuovo pulpito al posto dell’altare della Vergine ed è quindi molto probabile che il ritrovamento avvenne proprio in quel punto, accanto alla parete nord della chiesa, davanti al sito in cui sorgeva il vecchio altare dedicato alla Vergine, che da un lato si trovava fissato al muro e che, forse, nascondeva l’accesso alla cripta.

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RENNES-LE-CHÂTEAU: LA COSTRUZIONE DEL MITO 4. I ritrovamenti di Saunière all’interno della chiesa: la Dalle des Chevaliers

Abbiamo lasciato, nell’articolo precedente, il parroco di Rennes-le-Château, Saunière, alle prese con i lavori di restauro effettuati nella chiesa di Santa Maria Maddalena e abbiamo anche detto che all’interno del pilastro scolpito che sorreggeva il vecchio altare, trovò due o tre cilindri di legno che contenevano “forse” quattro o cinque pergamene.

Ma non furono questi gli unici ritrovamenti “misteriosi” fatti da Saunière che andranno a formare i tasselli della mitologia di Rennes-le-Château.

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RENNES-LE-CHÂTEAU: LA COSTRUZIONE DEL MITO 3. I ritrovamenti di Saunière all’interno della chiesa: le misteriose pergamene

Nell’articolo precedente abbiamo visto che Béranger Saunière, divenuto parroco del piccolo paese di Rennes-le-Château, nel giugno del 1887 inizia i primi lavori di restauro nella chiesa di Santa Maria Maddalena con le riparazioni più urgenti, lavori che proseguiranno per diversi anni. Ed è nel corso di questi lavori che il sacerdote avrebbe fatto diverse scoperte.

All’inizio del IX secolo fu costruita una roccaforte sulla sommità della collina, dove oggi si trovano gli edifici di Béranger Saunière. Adiacente al fortino si trovava una cappella, che nel corso degli anni diventerà l’attuale chiesa di Santa Maria Maddalena. Pannello didascalico nel Musée Domaine de l’Abbé Saunière a Rennes-le-Château, a cura di Mariano Tomatis. (Foto dell’autore)

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